ANCORA LUIS BUÑUEL

Leonardo Tonini su LUIS BUÑUEL

 

Chi va in cerca della verità non ha una verità da proporre, sa che la verità è ineffabile, che è fatta di distruzione di altre verità, di narrazioni prese per vere e sacralizzate. Ho rivisto La via Lattea (La Voie lactée), film del 1969 e primo della pentalogia dell’ultima età dell’oro del regista spagnolo, reduce dal successo di Bella di giorno (Belle de jour). Ho trovato il cinema, come da un po’ non mi capitava di vedere, il cinema fatto di cinema, non imitazione della letteratura o di altre arti, il cinema nella sua purezza. Una pellicola di rara forza narrativa, nonostante si tratti della tipica narrazione non lineare di Buñuel. E non ho trovato il furore iconoclasta che molti reputano al regista, cadendo in una interpretazione banale di lui come regista arrabbiato in lotta contro il potere, contro lo Stato e la religione.

Luis è quello che appare nel documentario[1] che mi sono guardato subito dopo La via Lattea, di seguito, nonostante l’ora tarda. Un signore timido, inquietato a livello fisico dalla cinepresa e dall’intervista (lo si vede dalla mano che tormenta il bracciolo della sedia) ma sereno nel pensiero, che non ha nulla da dimostrare a nessuno, che non ha tesi da sostenere, parti da recitare. Un uomo che ha vissuto la vita e che a settant’anni semplicemente dice quello che pensa senza curarsi delle conseguenze. Che ha maturato e accettato le sue scelte, anche i suoi errori. Il giornalista nelle domande vorrebbe sostenere delle risposte, dice cose come: “Lei è quello che…” e “Nei suoi film lei sostiene che…” : tutte illazioni e teorie che il regista con pacatezza smonta proponendo una realtà molto più semplice, meno clamorosa, segno che già in vita si era creata una frattura tra le intenzioni del regista e le interpretazioni dei critici. Io non sono un intellettuale, i miei film si muovono per suggestioni, non voglio sostenere nessuna tesi nei miei film, ripete più volte.

Leggendo i molti articoli su i film di Buñuel mi rendo conto di quanto è difficile accettare la banalità della realtà e come sia più facile credere ancora oggi al mito del furente anarchico che usa i suoi film come bombe contro la borghesia. Questo è solo uno schema che poteva andare bene come narrazione negli anni 60 e 70 del secolo scorso, e che oggi non ha più nemmeno il contesto per esistere. Oggi la borghesia non è esiste più, chiedete a un giovane che cosa sia la borghesia, o che vi faccia un esempio di borghese e non saprà cosa rispondervi, non perché ignorante, ma perché è tramontato il concetto.

Prendiamo una delle scene più famose del film, la fucilazione del papa. Non mi ha suscitato nessuna trepidazione. Già all’interno del film si tratta di una allucinazione, non fa parte della realtà del film, e non ha nessuna conseguenza narrativa. Molto più disturbante la scena dove le bambine sul palco gridano “Anatema su di lui!” come fosse una condanna a morte, applaudite da genitori e insegnanti. Bambine condizionate a ripetere le scemenze dei grandi, il giudizio e la punizione come spettacolo scolastico, gli applausi di soddisfazione per una scena che dovrebbe piuttosto suscitare ribrezzo.

Buñuel se la prende con l’ipocrisia, non con la religione. Il suo è un ateismo sereno, non arrabbiato e furente, per questo la sua critica alla religione è tanto più forte. Non è una faccenda emotiva, ma razionale. I due protagonisti che rappresentano l’umanità in cammino (in cammino nonostante tutto) uno si dichiara ateo e l’altro credente, e sono insieme e vanno d’accordo, si aiutano. Il credente viene visto come dotato di dignità pari all’ateo, e non viene da questi giudicato per ciò in cui crede. Le loro discussioni sono serene, il credente si trova spesso a non sapere cosa rispondere alle semplici (e semplicistiche) osservazioni dell’ateo, ma non per questo abiura alla sua fede. Crede nonostante veda anche lui le contraddizioni. Questo per il regista segna la differenza tra il credente e il fanatico: avere dei ragionevoli dubbi su ciò in cui si crede fa di un credente un moderato, altrimenti si è nella psicosi.

Tutto il mondo che ruota intorno ai due è folle, ipocrita o fanatico. Chi predica il bene e fa il male, chi per una sua idea di bene arriva a mettere al rogo degli innocenti. Atei e religiosi, folli, inchiodati alle loro idee, ciechi davanti alla realtà, come il marchese De Sade che mentre tortura una ragazza discetta di ateismo, o la vittima che grida il suo credo tra le urla e le lacrime. Follia, psicosi, compromissione dell’esame della realtà, assenza di una strategia di uscita da un problema (insight), deliri e allucinazioni. 

Non ha problemi Luis a dire che uno dei suoi più intimi amici della tarda età è un gesuita, dopo aver dichiarato che il periodo più buio, più traumatico della sua giovinezza sono gli otto anni passati nel collegio dei gesuiti di Saragozza. Periodo cupo, dice, da dove però gli vengono ancora oggi (a 70 anni) le suggestioni, le immagini, le intuizioni che formano la sua creatività, i demoni. E lui appunto segue questi demoni interiori, li mette su pellicola, crea un intimo dialogo con essi, film dopo film.

Non quindi La via lattea un film didascalico, come ho letto, o un film con un intento ben preciso, un film a tesi, questo non avrebbe fatto della pellicola il capolavoro che è, non a distanza di oltre 50 anni da quando è uscito nelle sale. Il film invece è ancora vivo, è ancora splendido, ci crea inquietudine e meraviglia; e questo proprio perché la vera arte non dice nulla, ma indica. Interessante la risposta che Buñuel dà a una precisa domanda del giornalista che gli chiede quale sia il suo metodo di lavoro e la risposta è per suggestioni, per immagini che si formano nella sua mente, ma senza un piano preciso e definito in partenza. L’esatto opposto dell’educazione gesuita che mirava a mettere sotto esame la coscienza mediante un controllo di ogni aspetto della vita degli scolari nel collegio.

Quando l’intervistatore gli chiede perché sia passato dal surrealismo al realismo nel suo primo film spagnolo Terra senza pane (Las Hurdes) il regista afferma che è proprio il surrealismo che gli ha permesso di vedere la realtà. Il surrealismo rompe la narrazione dominante che non è quella del potere, ma è la storia che ci raccontiamo, la nostra zona di confort che tende a dare un senso a tutto ed è cieca verso le criticità che rischiano di mettere in dubbio questa narrazione. È questa narrazione dominate interiore che crea il potere, non il contrario. Il potere non è altro che la somma di ciò che la maggioranza crede.

Nella locanda, verso la fine del film, l’oste dice ai due amici: non aprite a nessuno, qualsiasi cosa vi dicano, voi non aprite a nessuno. I due amici ascoltano e dialogano con il prete che di notte viene a trovarli, la narrazione dominante che è affascinante e dice cose sensate, ma saggiamente non lo fanno entrare nella loro stanza/intimità, dove abitano i loro propri fantasmi (la giovane ragazza in quella di uno dei due e l’uomo che legge in quella dell’altro: due atti interiori, intimi, la lettura e l’affettività). Parlateci con la narrazione dominante, ma non fatela entrare di notte nelle vostre segrete stanze.

Nell’ultima scena, Gesù guarisce due ciechi che però non riescono a capire cosa stanno vedendo. “Signore, mostrami dov’è il colore bianco, dov’è il nero!” Lui non lo dice, li consola con una carezza e dice ai discepoli: “Chi ama sua madre e suo padre più di me, non è degno di me.”

Non sorprende che molti commentatori non abbiano compreso il film, che l’abbiano letto come il gesto di un arrabbiato contro la religione, come la ripicca di un offeso. Sereno è Buñuel nelle sue idee, un po’ impacciato di fronte alle domande, ma è pudore.

 

Leonardo Tonini



[1] Luis Bunuel: Il dubbio come libertà, di Mario Foglietti e Enzo Natta, Rai 1970.